Lu Uttaru
Prima che arrivassero i silos di vetroresina o le cantine con contenitori di cemento, il vino si conservava oltre che nelle grandi capase anche nelle botti. Di questo contenitore cambiava solo la grandezza ma la forma restava sempre uguale. Lu uttaru era uno dei mestieri poco noti, ma chi lo esercitava doveva conoscere bene sia le tecniche che l'uso dei materiali. Maestri indiscussi, cui tutta la provincia riconosceva bravura e capacità, erano "li uttari gallipolini". Il legno più adatto per meglio conservare sia l'aroma che il colore era il rovere o il castagno. Dai tronchi ben stagionati ne ricavavano delle doghe che venivano lavorate con l'ascia, poi incurvate e sagomate con vera maestria, in modo che, accostate le une alle altre, formassero un cerchio di legno e non si lasciasse filtrare una sola goccia di liquido. Le due estremità della botte "li cuperchi" o "tamapagni" erano anche essi fatti con fasce di legno. Per meglio tenere e far legare le fasce realizzava dei cerchi di ferro di diametro diverso che collocava con perizia sulla botte. L'utilizzazione di tinelle, utticeddre, utti e uttuni era tanta in tutti i palmenti della Provincia perché l'esportazione del nostro vino in altre parti dell'Italia avveniva con questi contenitori. La clientela era costituita da grandi proprietari e produttori di vino ma anche da singoli contadini.
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